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Autore: Manuela Maurizi

Humans of Centocelle: Desirée e Roberto

“Centocelle è un posto dove ancora scendi sotto casa e hai il negozietto per fare la spesa, il bar in cui fai due chiacchiere e trovi nuovi amici”.

Siamo nel parco Madre Teresa di Calcutta, verso le sette e mezza di sera, mentre l’ora legale scattata da poco ci regala gli ultimi scampoli di luce. Ci imbattiamo in Desirée e Roberto, una simpaticissima coppia accompagnata dalla loro cagnolina di nome Mora.

Entrambi hanno 22 anni e si sono trasferiti a Centocelle un po’ per necessità e un po’ per caso ma non tornerebbero indietro, qui si trovano bene, hanno tanti amici di differenti nazionalità e poi è qui che dopo 9 anni di amicizia hanno scoperto che si amavano e volevano stare insieme.

“Siamo andati a convivere come amici e poi ci siamo fidanzati!”.

Il lavoro (lui rifornisce ristoranti di frutta e verdura, lei lavora in un centro estetico), li fa incontrare quasi solo la sera, ma Roberto fa trovare a Desirée la cena pronta e pare sia un ottimo cuoco “E’ bravissimo, sono così felice di non dover cucinare che se poi c’è da lavare i piatti non mi pesa!”

Mora intanto corre felice intorno alla loro panchina, l’hanno trovata in un canile ed è stato subito amore “I cani non si comprano” dice Desirée, e noi siamo d’accordo con lei.

Roberto immagina Centocelle tra 10 anni e vede un quartiere giovane, multiculturale, pieno di vita, quasi “altolocato” (cit.).

Sicuramente la presenza di una coppia di ragazzi come loro lo rende ancora più speciale.

 

Foto by L’Idiota

Humans of Centocelle: Orazio

Nel ‘56 i platani in via dei Noci sembravano più arbusti che alberi: erano stati appena piantati per fare ombra alle future macchine parcheggiate, che però all’epoca erano sì e no una decina. Nel suo bar Orazio vendeva quartini di latte e generi di prima necessità ai temerari che avevano cominciato a popolare Centocelle, mettendo salde radici, proprio come i platani.
“Mi proposero di comprare un lotto di terra, tornare in Sicilia e ripassare dopo 20 anni, ma io ho scelto il bar.” E così Orazio e la moglie Franca si sono trasferiti a Roma, preferendola a Milano.

Orazio Giuffrida dentro al suo bar
Orazio Giuffrida gestisce il suo storico bar a Centocelle dal 1956.
Salvatore mostra foto antica dal cellulare
Salvatore ci mostra una foto d’epoca del papà alle prese con la macchina dei caffè a pressione.
Foto di set cinematografici esposte dentro al bar Orazio
Dentro il bar di Orazio sono stati girati film, fiction, serie tv.
Orazio Giuffrida dentro al bar Orazio
Orazio con il suo bar ha creduto in un quartiere che era ancora più campagna che città.
Salvatore Giuffrida dentro il bar fondato dal padre Orazio a Centocelle
Salvatore gestisce anche il gruppo Facebook BAR ORAZIO (dal 1956).

Hanno creduto in un quartiere che era ancora più campagna che città e hanno fatto bene, perché il bar Orazio è diventato un’istituzione: “Qua sono passati tutti, da Baglioni a Pasolini” e se ne è accorto anche il cinema che questo posto è una macchina del tempo che ti riporta nella Roma degli anni ’70, infatti ci hanno girato film, fiction, serie tv.

Gli avventori si appoggiano al bancone e nel tempo di un caffè si sentono già a casa, accolti in una famiglia pronta ad ascoltare e condividere esperienze.

Salvatore ci mostra una foto d’epoca del papà alle prese con la macchina dei caffè a pressione: sembra un fotogramma della Dolce Vita, era destino che diventasse famoso.
La nuova rubrica Humans of Centocelle non poteva che aprire con chi ha scommesso tutto nelle potenzialità del nostro quartiere e da più di 60 anni lo colora di storie e di passione, un uomo e un bar con un solo nome: Orazio!

Foto di Michela Zedda

100Ciak: gli anni Cinquanta

Inauguriamo la rubrica dedicata ai film ambientati a Centocelle con due chicche di fine anni ‘50:

Il primo è “La finestra sul Luna Park” una pellicola del 1957 diretta da Luigi Comencini. La trama è semplice: un operaio dopo aver lavorato per alcuni anni in Kenia torna a Roma e trova la moglie morta e il figlio Mario che non lo riconosce più. Non è facile ristabilire un rapporto con il bambino, tanto che l’uomo vorrebbe affidarlo ad un orfanotrofio per poter ripartire. A complicare la situazione durante l’assenza del papà, un corteggiatore della madre, il rigattiere Richetto, si era sostituito alla figura paterna. Alla fine però anche grazie all’intervento di Richetto i due riescono a recuperare, o meglio a costruire un’intesa.
Rondolino lo definisce «Un film intimista, il rapporto d’amicizia tra un uomo e un bambino colto nelle sue pieghe psicologiche e umane, tratteggiato con fine sensibilità e tocchi delicati.”

Di Certo è un film minore nella storia del dopoguerra, che costituisce però una tappa importante nella carriera del suo autore in direzione di una più attenta e precisa indagine della realtà, come si vedrà in certe scene di “Tutti a casa” e “La ragazza di Bube”.
Luigi Comencini ha diretto nella sua carriera i maggiori attori italiani, come Alberto Sordi, Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida in Pane Amore e Fantasia, film con il quale ha lanciato la commedia all’italiana di cui è stato uno dei massimi esponenti insieme a Mario Monicelli e Dino Risi.
Nelle scene ambientate a Centocelle si vede una quasi commovente piazza dei Gerani con le luci e le giostre della festa, e parte di via dei Castani. Per chi vive qui è impossibile non riconoscere i palazzi che circondano la piazza ma il tempo trascorso e il relativo cambiamento degli spazi è evidente.

il secondo film è “La banda degli onesti” girato nel 1956 e diretto da Camillo Mastrocinque, con protagonisti Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia.
Scritta e sceneggiata da Age & Scarpelli la pellicola consacrò il sodalizio artistico di Totò e Peppino ed è considerato uno dei film migliori della coppia.
La trama: venuto casualmente in possesso di una matrice di stampa per denaro, il portiere Antonio Bonocore (Totò), si mette a fabbricare banconote false con due complici. Suo figlio, finanziere, è sulle tracce di una banda di falsari e l’uomo, per non comprometterlo, decide di costituirsi. Scopre però che l’unico biglietto speso è quello autentico, servito come modello per gli altri. Salvatosi dalla galera decide di bruciare la matrice e le banconote prodotte, per sbaglio tra le fiamme finirà anche una borsa di soldi veri: il suo stipendio.
La critica non ne fu propriamente entusiasta, ma il grande successo tra il pubblico lo consacrò tra i grandi classici della filmografia di Totò.
Così ne parlò Il Messaggero: “Nel panorama non troppo consolante dei nostri film comici, questa pellicola merita una menzione onorevole. Spigliata, briosa, dotata di un dialogo vivace e di qualche genuina trovata, la storia corre diritta all’onesto scopo di suscitare risate” (13/4/1956).

La scena che ci interessa è ambientata in uno dei parchi più famosi di Centocelle: Villa Gordiani, facilmente riconoscibile dai resti del famoso ninfeo sullo sfondo, protagonisti sono due giovani, il figlio di Totò e la sua fidanzata che passeggiano nel parco. In questo caso il cambiamento è meno evidente, ma vedere sul grande schermo uno dei luoghi simbolo di Centocelle è sempre emozionante!

Nameless di Grant Morrison e Chris Burnham

Il nostro amico nerd, Andrea Giancaterina, ci ha consigliato questa graphic novel, ecco le sue testuali parole a riguardo!
 “Nameless è una questione complessa.
Un volume unico edito da Saldapress che raccoglie la mini in 6 numeri della Image Comics.
Una questione complessa come tutte le opere dello scrittore inglese Grant Morrison quando decide di scrivere qualcosa di più di un semplice racconto di intrattenimento e va a sfiorare immagini, simboli  e significati che  divengono talmente stratificati da farci allontanare totalmente dallo spunto di base per ritrovarci in un viaggio senza inizio e fine e senza qualsiasi appiglio narrativo classico.
La struttura svanisce e quello che originariamente poteva sembrare un horror fantascientifico ambientato nello spazio diviene un viaggio metafisico, evocativo, che abbraccia temi esistenziali ed immanenti come il 2001 di Kubrick, in una compressione di idee e di sperimentalismo formale.
L’intrattenimento dei Disaster Movie, dicevamo, è appena accennato, alcuni stilemi del genere sfiorati fanno da innesco e pretesto, poi si parte senza fare ritorno verso un abisso Lovecraftiano e nichilista dove tutto è simbolo, evocazione, rito; dove un senso sempre più incessante di cupa incombenza prevarrà sul lettore, un senso di perduta desolazione e deriva cosmica come quella che  sperimenta il protagonista.
Cosa preserva una tale opera dall’essere “onanismo mentale autoreferenziale?” o meglio: “perchè dovrei leggerlo”?
Perché Morrison tocca le corde giuste facendolo con consapevolezza e dando sempre l’impressione di conoscere bene quello di cui sta raccontando.
Le prosa utilizza figure archetipiche, gli  Incubi primordiali  aprono  fobie che realmente albergano negli strati della mente umana e  colgono il bersaglio innescando in chi legge un abisso di ipotesi, congetture e riflessioni, spostando così il focus principale dal livello narrativo di base a quello simbolico: ci si scopre ad interrogarsi sul significato dell’esistenza e di Dio.
Vi ritroverete a sfogliare, come spesso capita nelle opere di Morrison, le pagine già lette alla ricerca di dettagli, di passaggi sottovalutati, indizi. Significa che quello che state leggendo funziona e la vostra mente è stata messa in moto.
I disegni di Chris Burnham sono perfettamente a servizio delle atmosfere e dell’idea: la sequenza delle tavole e delle vignette viene deformata e assoggettata, spezzata e ricomposta, rimanendo comunque chiara ed intellegibile.
L’autore  marca attraverso soluzioni grafiche l’idea del tempo che passa e lo sprofondare e riemergere dall’abisso e dai meandri del sogno, con minuzia di dettagli e particolari; particolari che dicono più delle parole invitandoci a riguardare e ispezionare ogni pagina come a dirci che il fumetto è tale quando parola e immagine si amplificano a vicenda, si intrecciano, si sfidano e si contraddicono sussurrandoci : “ragiona, guarda meglio, gratta la superficie”.
Leggiamo Nameless con la consapevolezza che Morrison ne sappia tanto più di noi e che forse abbia spalancato qualche segreto proibito o incubo universale e che ora sia qui per iniziarci alla verità inconfessabile dietro la condizione umana.”

Un mistero lungo quarant’anni: la scomparsa di Marco Dominici.

Chiunque viva a Centocelle prima o poi sente raccontare la storia di Marco Dominici.
Una storia che non ha di certo un lieto fine o meglio non ha una fine.
La domenica del 26 aprile 1970 Marco ha 6 anni, è appassionato di pallone e film western come tutti suoi coetanei. Abita in via dei Ciclamini a due passi dall’oratorio Don Bosco e dopo pranzo chiede alla mamma il permesso di andare al cinema che si trova all’interno della congregazione dei Salesiani. Quella sera però non torna a casa.

La scomparsa di Marco in prima pagina su ”Il Messaggero” del 28 aprile 1970

Subito scattano le ricerche e si interrogano i compagni di giochi: Massimo Rosseni, il bambino che abita nel suo stesso palazzo, afferma che al cinema Marco era seduto accanto ad un ragazzo sui vent’anni vestito di nero e dopo la proiezione si è allontanato verso il Quarticciolo anziché tornare a casa. Alcuni lo hanno visto invece salire su una berlina rossa, altri dicono di non averlo mai visto arrivare all’oratorio quel pomeriggio. Sin dai primi momenti non si hanno certezze se non che il bambino non si trova da nessuna parte. Sembra essersi volatilizzato.
Nelle ricerche capeggiate dal Dr. Palmieri vengono impiegati cani poliziotto del centro cinofilo di Nettuno e più di 800 agenti.
Si cerca nei campi Rom, nelle fungaie del parco di Centocelle, nelle condutture di scarico. Saranno interrogati, senza ottenere dati rilevanti, più di 1000 ragazzi.
Le indagini si orientano soprattutto nell’ambiente della prostituzione e tra i cosiddetti “deviati” del quartiere. Il responsabile dell’oratorio Don Mario Ballerini fa il nome di Giuseppe Soli, un uomo di 33 anni originario di Ragusa appena uscito dal manicomio Santa Maria della Pietà e subito parte la caccia al mostro. Nei giorni successivi alla scomparsa, Giuseppe, che viveva col fratello al Tuscolano, si era allontanato da Roma. Viene ritrovato a Caserta dai Carabinieri mentre cerca di rubare una bici. Portato in caserma e interrogato è subito rilasciato per insufficienza di prove e rispedito in manicomio.
Nel frattempo il caso è sui giornali e tutta Italia si stringe intorno alla famiglia del piccolo.
La madre Paola ha altri due figli a cui badare, il padre Roberto lascia il lavoro per mettersi alla ricerca di Marco, battendo metro per metro non solo Centocelle ma tutta la città, spingendosi fino all’Eur e oltre.

La casa di Marco oggi, in via dei Ciclamini 217.

Centinaia di segnalazioni arrivano alla polizia. Una vicina dei Dominici riceve la telefonata di una donna che dice di avere Marco con sé, di non preoccuparsi e abbandonare le ricerche. In realtà si trattava soltanto dell’ennesima mitomane.
Fra tutti gli avvistamenti solo uno risulterà attendibile, quello dei coniugi Astolfi che alle tre di notte sentono un bambino piangere sotto la loro abitazione in via del Campo 50 all’Alessandrino. La reazione che hanno è quanto mai insolita e umanamente inspiegabile. Impauriti non aprono alla richiesta d’aiuto del piccolo e si chiudono dentro casa. Questa sarà l’ultima volta che Marco viene visto in vita. Forse poteva essere salvato, forse no. Non lo sapremo mai. Da tutti Roberto Dominici ottiene solidarietà e la massima disponibilità tranne che dall’oratorio, che spesso gli chiude le porte, come lui stesso dichiara in un’intervista rilasciata a “Chi l’ha visto?” nel 2014.
Passano giorni, mesi e anni, di Marco nessuna traccia.
Fino al 1977.
Nel maggio di quell’anno Antonio Zacaria, Pietro Finamore e Fabrizio Alfano, tre ragazzi del quartiere, si calano all’interno dei cunicoli del Forte Prenestino (all’epoca ancora in stato d’abbandono) per cercare residuati bellici da vendere a Porta Portese. Con molta sorpresa trovano invece dei resti umani di varia natura: in un sacco di plastica la costola di un bambino, dei brandelli di stoffa e le scarpette indossate da Marco il giorno della scomparsa. Sparsi nell’arco di 7 metri quadrati ci sono altre ossa di bambini, adulti e animali. Avvertita la polizia viene subito setacciato il cunicolo, tra i reperti conservati ci sono anche un maglioncino e una tutina da calcio.

Arbusti del Forte Prenestino oggi.

I familiari di Marco sono scettici, ci sono oggetti appartenenti al figlio ma come avere la certezza che quelle siano davvero le sue ossa? All’epoca non esisteva ancora il test del DNA.
Si scopre immediatamente che l’ingresso nel cunicolo è possibile, oltre che attraversando un fossato molto impervio, attraverso due botole entrambe murate e con accesso da luoghi interni all’oratorio. Diversi testimoni dichiareranno che l’apertura di queste caditoie fu murata successivamente alla scomparsa del bambino.

Porta murata dietro ad un cancello del ”Don Bosco”.

In troppi si chiedono come mai il Forte Prenestino non sia stato setacciato da cima a fondo quando Marco è scomparso, essendo così vicino all’oratorio. Non si avrà una risposta. Il ritrovamento delle ossa riapre le indagini e si torna a parlare di Giuseppe Soli, l’unico indiziato, di nuovo arrestato cautelativamente e poi processato. Tenuto in carcere per ben tre anni viene infine assolto con formula piena grazie anche all’avvocato Rocco Ventre, fra i pochi a credere fermamente nella sua innocenza a differenza della stampa e dell’opinione pubblica colpevolista.
Facile scaricare tutto sul malato di mente ma molte cose non tornano, troppe le piste scartate o non approfondite. Nello stesso anno della scomparsa alcuni sacerdoti ed educatori del Don Bosco furono arrestati per atti libidinosi ma nessuno ricollegò questi fatti alla scomparsa di Marco, nemmeno si riuscì a capire in che momento l’accesso alle botole fu murato o chi fosse l’uomo vestito di nero seduto accanto al bimbo nel cinema.
Come se non bastasse qualche anno fa il comune di Roma ha avviato le pratiche di spostamento dei resti del piccolo Marco in un ossario. Roberto Dominici ha dovuto pagare 3000 euro per far sì che ciò non accadesse, se non altro per poter un giorno eseguire il test del DNA e sapere una volta per tutte se dentro quella cassa c’è davvero suo figlio.

Ingresso dell’oratorio Don Bosco in un giorno di maggio del 2017.

 Foto di Eleonora Tahari